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Il lavoro atipico e la protezione sociale dei migranti in Europa. Un’analisi basata su casi reali

In quali casi, e secondo quali criteri, il rapporto contrattuale tra un dipendente e il suo datore di Lavoro può essere definito come standard, ibrido oppure atipico? Perché gli enti previdenziali dei paesi europei a volte tengono conto dei periodi di lavoro che la persona ha svolto in altri paesi e talvolta no? E soprattutto, quale impatto specifico può avere il lavoro con contratti atipici sul percorso migratorio di una persona che si sposta da un paese europeo all’altro? Per un migrante, un lavoro atipico può essere tutto sommato un buon trampolino di lancio verso un’integrazione professionale più stabile o, al contrario, comporta il rischio di rimanere intrappolato in un rapporto di lavoro di seconda classe?

Sono alcune delle questioni affrontate in uno studio intitolato “Atypical w ork and the social protection of migrants in Europe. An analysis based on real cases”, realizzato per la FEPS (Foundation for European Progressive Studies) da Carlo Caldarini, sociologo e pedagogista italo-belga, esperto di politiche sociali, nonché collaboratore dell’Istituto Fernando Santi per gli studi sulle diaspore.

Questo studio chiarisce innanzitutto cosa si intende per lavoro atipico e quali sono le principali differenze rispetto al lavoro standard. Sebbene non esista infatti una definizione ufficiale di lavoro atipico, i vari concetti adottati a livello internazionale e nazionale, se messi in relazione tra loro, lasciano emergere importanti punti di convergenza.

Successivamente, viene presentato a grandi linee il quadro giuridico che regola il principio della libera circolazione dei lavoratori nell’Unione europea, evidenziando i punti che si applicano, direttamente o indirettamente, anche ai migranti di paesi terzi.

Nell’ultima parte, attingendo a testimonianze di vita reale ed esempi di migranti, uomini e donne, che hanno vissuto e lavorato in diversi paesi dell’UE, lo studio analizza in dettaglio gli effetti che il lavoro atipico può avere sui diritti in materia di previdenza sociale, in particolare disoccupazione e pensioni, e sugli altri diritti sociali collegati allo status di “straniero”, come l’accesso alla nazionalità del paese ospitante, il ricongiungimento familiare e il diritto di soggiorno.

In definitiva, lo studio mostra che, mentre i contratti atipici sono sempre più diffusi, soprattutto tra i migranti, i sistemi di protezione sociale europei e nazionali, nati sotto l’influenza dell’era fordista della produzione di massa, sono invece tuttora principalmente costruiti attorno alla figura classica del “lavoratore”, generalmente un uomo, con un contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, una regolare carriera professionale, e con una famiglia a carico.

In questa situazione, oltre ad altri svantaggi collegati il più delle volte al lavoro atipico, come la precarietà del rapporto di lavoro, la sua scarsa remunerazione e i pochi diritti previdenziali, un rischio maggiore cui si espone un migrante è che il suo stesso status di “lavoratore” venga messo giuridicamente in discussione. Il nocciolo della questione, in breve, è che nei sistemi sociali dei Paesi europei, è lo status di “lavoratore” che protegge i diritti dei migranti, ed è questo stesso status che viene messo in discussione ogni volta che un migrante si trova a dover lavorare con un contratto atipico.

Questa pubblicazione può essere scaricata gratuitamente sul sito web della FEPS (disponibile soltanto in inglese):

Carlo Caldarini, Atypical work and the social protection of migrants in Europe. An analysis based on real cases, FEPS, Policy Study, July 2022: https://bit.ly/3d88iW7