La postura dei miei genitori, la loro umiliazione, la loro sofferenza… essere soffocati dal sistema in questo modo… mi ha traumatizzato… (Testimonianza di Solange, originaria del Rwanda).
L’associazione Espace Sémaphore – Centre de psychologie et de sociologie interculturelles (www.espace-semaphore.be) ha pubblicato in questi giorni i risultati di una ricerca qualitativa realizzata per la Regione Vallona, nel Belgio francofono, su un aspetto ancora poco studiato: gli effetti nocivi della discriminazione etno-razziale sulla salute di chi la subisce.
Gli autori sono Rachid Bathoum, socio-economista di origini magrebine, con una lunga esperienza di lavoro nel campo delle discriminazioni, in Francia e in Belgio, e Carlo Caldarini, sociologo e pedagogista italo-belga, esperto di politiche sociali, nonché collaboratore dell’Istituto Fernando Santi per gli studi sulle diaspore.
Il metodo adottato da Bathoum e Caldarini per questa ricerca potrebbe essere riassunto in tre parole: “ascoltare le vittime”. Troppo spesso, infatti, coloro che parlano non sono coloro che subiscono la discriminazione, mentre al contrario la loro voce è fondamentale se si vuole capire come i migranti e i loro discendenti sperimentano gli effetti cumulativi e spesso invisibili della discriminazione e quali sono le conseguenze.
La ricerca, condotta con metodo biografico, si basa sulle storie di vita di 13 persone residenti in Vallonia, provenienti da Algeria, Benin, Congo, Marocco, Ruanda, Togo e Turchia. Un importante contributo è stato fornito in un secondo tempo da un altro gruppo di 15 persone, di diverse nazionalità, e tutte di recente immigrazione (primo-arrivants, come si dice in francese).
Va detto subito che le testimonianze raccolte, non lasciano emergere storie eclatanti di annunci di affitti “vietati ai neri”, né appelli a “gettare i migranti in mare”, e neanche richiedenti asilo picchiati perché i residenti locali erano contrari a un centro di accoglienza, svastiche spruzzate sulla porta di casa o altri spargimenti di sangue. Nessun fatto, insomma, degno della prima pagina dei giornali o, ancor meno, di comparire in un’aula di tribunale. Ciò che emerge, invece, è un sentimento generalizzato e quotidiano di rassegnazione di fronte a piccoli atti d’intolleranza, disprezzo e disdegno: “Le persone che sperimentano cose estreme come quelle, come la violenza della polizia, sono rare – dice Carlos, originario del Togo – ciò che noi sperimentiamo, ciò che ci distrugge, noi ne vediamo soltanto gli effetti, ma si tratta di cose piccole, sottili, apparentemente innocue…”.
Il più delle volte si tratta effettivamente di insinuazioni all’apparenza innocue, come ad esempio il cambio di atteggiamento dell’insegnante nei confronti di uno dei suoi studenti quando viene a sapere che il nome del ragazzo suona “arabo”, o le continue insinuazioni falsamente innocenti del formatore sulle origini di alcuni allievi. Oppure, in altri casi molto più concreti e materiali, la retrocessione di un lavoratore a mansioni meno visibili a causa del colore della sua pelle. O, ancora più spesso, le due cose insieme, lo battuta ipocritamente buona e il successivo atto di segregazione.
Queste micro-aggressioni ordinarie si verificano più o meno quotidianamente, qui e là e ovunque. Nelle parole di un Boubakar, originario del Benin, “non puoi dire che quando sei a scuola va bene, è solo quando sei per strada che rischi di essere aggredito o insultato, o che quando sei per strada va bene, è solo quando sei sull’autobus…, è ovunque e sempre…”.
L’aspetto più grave è che i comportamenti discriminanti si verificano soprattutto in quei luoghi, e in quei contesti, in cui gli immigrati dovrebbero “apprendere a integrarsi”, ossia a scuola, al lavoro, nei luoghi di formazione. Secondo i due Autori, occorre intervenire con urgenza per garantire che, proprio in questi contesti che i sociologi chiamano “agenzie di socializzazione”, che comprendono la scuola, la formazione e il lavoro, le persone vengano educate a qualcosa di diverso dall’emarginazione, dalla frustrazione e dall’esclusione.
Il rapporto di ricerca, che conta più di 100 pagine, è strutturato in tre parti principali. Nella prima, le parole dei testimoni rivelano, ognuno a modo suo e con storie diverse, che il razzismo vissuto nella vita di tutti i giorni porta a malesseri generali, rischio di danni fisici e somatici, suicidio, depressione, ansia, rabbia, preoccupazione e malattia mentale. Le testimonianze mostrano bene come questo influisce anche sull’ambiente familiare e come si trasmette di generazione in generazione.
Nella seconda parte, i due Autori mettono in evidenza le posture e le strategie più o meno consapevoli che le persone che subiscono sistematicamente la discriminazione razziale arrivano a costruire per proteggere se stesse e i propri familiari. Si vede, a questo proposito, come sia difficile esprimere a parole gli effetti nocivi della discriminazione etno-razziale sulla salute psicologica, medica e sociale. E come questo silenzio forzato, questa incapacità di dare voce alla sofferenza, influisca in modo chiaramente negativo sui livelli di felicità, soddisfazione di vita e autostima.
In conclusione, la ricerca presenta due tesi principali. La prima è che l’inclusione è una responsabilità della società ospitante, ancor più che degli immigrati e dei loro discendenti. La seconda è che è essenziale coinvolgere sistematicamente gli immigrati e i loro discendenti il prima possibile nello sviluppo di progetti legati alla salute.
Cosa possono fare le istituzioni, e quelle locali in particolare?
Il coinvolgimento sistematico degli immigrati e dei loro discendenti, il più presto possibile, nello sviluppo di progetti legati alla salute è essenziale. Non si tratta soltanto del dovere di “informare” e “consultare” queste popolazioni, ma della necessità di un’autentica partecipazione alla costruzione delle politiche, non tanto migratorie, ma di salute pubblica. Si tratta anche di sostenere maggiormente l’azione delle istituzioni e delle associazioni, grandi o piccole, che svolgono un importante lavoro educativo sul campo.
Anche dal punto di vista scientifico, concludono gli Autori della ricerca, è importante spostare lo sguardo verso le posizioni dominanti e completare l’analisi delle disuguaglianze etno-razziali attraverso il concetto di blanchité, bianchezza potremmo dire in italiano (whiteness, in inglese). Anche il concetto di razza bianca, infatti, è frutto di un processo di costruzione sociale, guidato da norme giuridiche che hanno trasformato la bianchezza in un “fatto oggettivo”.
La messa in discussione del concetto di bianchezza è un primo passo, che sarebbe interessante approfondire per rendere visibile una realtà sconosciuta, e fare quindi emergere, per comprenderli meglio, i processi e i meccanismi di costruzione strutturale dei danni della discriminazione razziale.
Il rapporto di ricerca, che è stato presentato alla Regione Vallona a febbraio 2023, propone diverse misure e azioni, a seconda del pubblico, dell’ambito e del contesto. Non potendo riassumerle in questo spazio, i lettori sono invitati a scoprirle cliccando sul seguente link: https://bit.ly/3XAG8Fp (il rapporto è in lingua francese).
Carlo Caldarini