CENTRO CONGRESSI FRENTANI, VIA DEI FRENTANI 2 – ROMA, 28 GIUGNO 2019
Conclusioni di Rino Giuliani Portavoce FAIM
La discussione di stamani ha sottolineato lo stretto legame che c’è tra condizioni economiche e migrazione.
L’emigrazione come soluzione per migliori condizioni di vita piuttosto che scelta di migliori opportunità di realizzazione sul piano professionale e personale.
Non voglio restringere in modo esclusivo il fenomeno della nuova emigrazione all’interno del frame narrativo della crisi economica, quanto sottolineare i rischi di una lettura centrata sulla mobilità “che rappresenta la modernità”, come recentemente mi è stato dato di leggere da Michele Schiavone, il segretario generale del CGIE (Consiglio Generale degli Italiani all’Estero), che ringrazio per l’indirizzo di saluto al nostro seminario. L’emigrazione insomma come fuga di cervelli, movimento di expat, definizione più confacente ad evitare lo stigma che equipara emigrati a immigrati. Mobilità/modernità che crea propensione a muoversi alla ricerca di soddisfazioni sia economiche sia personali, mobilità come precondizione per il successo socio-economico, antidoto all’immobilismo svantaggiante di un paese e di un sistema produttivamente in declino che non valorizza la professionalità, mobilità che porta a trovare stimoli, meritocrazia e gratificazioni ma in altri paesi. Una mobilità spaziale elevata a paradigma cui tuttavia, val la pena osservare, non fa sempre seguito una mobilità sociale ascendente.
Questo dato di realtà ci dice che assumere come unica chiave di lettura il frame mobilità non ci aiuta a leggere e interpretare le esigenze e le aspettative dell’emigrazione di questi anni. Partendo da considerazioni empiriche, osservo come alcune dinamiche appaiono essere comuni ai diversi flussi migratori.
Già il Rapporto Migrantes del 2014 mostrava come Il quadro delle persone che emigrarono in quegli anni fosse molto più eterogeneo per livelli di scolarità, qualificazione e formazione o per percorsi professionalizzanti acquisiti in Italia. Emigrano anche persone con la licenza elementare, come ha fatto notare Livi Bacci: un emigrante con licenza elementare non è un cervello né un talento.
Le migrazioni odierne, non sono poi così diverse da quelle del passato. Forti sono le analogie che vi si possono rinvenire. Si può distinguere tra migrazioni povere del passato e migrazioni fluide di oggi?
Tirabassi e del Prà già nel 2008 evidenziavano come la mobilità fosse una caratteristica della società italiana del passato tanto quanto di quella presente. Evitare stereotipi è quindi necessario: la realtà, se ci si mette all’ascolto, appare molto più complessa.
Come FAIM, nel precedente convegno a Palazzo Giustiniani, abbiamo ripreso l’espressione “emigrazione proletaria” a sottolineare la natura e le motivazioni di una emigrazione che esporta lavoro marginale e dequalificato e più limitatamente professionisti, che non avviene peraltro solo dal sud al nord del mondo, ma anche all’interno dell’Unione Europea stessa.
Migranti inseriti non solo in percorsi lavorativi professionalizzanti, ma anche largamente in occupazioni precarie. Questo dato ci interroga e dovrebbe interrogare le istituzioni italiane, quelle dei singoli Paesi europei e quelle europee.
Una questione di rilievo è il tema del riconoscimento delle credenziali educative dei migranti e la collocazione nel mercato del lavoro estero. In Italia – lo sappiamo – gli immigrati seguano percorsi di integrazione subalterna: le credenziali educative ottenute nei Paesi d’origine non vengono adeguatamente riconosciute in Italia e la popolazione straniera trova solitamente collocazione nei lavori meno qualificati. [Ambrosini 2013]
Nel convegno che faremo in autunno dovremmo poter investigare la condizione degli gli italiani che oggi si inseriscono nel mercato del lavoro del Paese in cui emigrano, quali possibilità di ascesa/discesa sociale si prospettano. Gli italiani che emigrano lo fanno in un clima di insicurezza che non è inedito, ma che trova parallelismi nel nostro passato migratorio e nel nostro presente di Paese che, al contempo, è paese di immigrazione.
Nei paesi europei troviamo insieme migrazioni internazionali e mobilità intraeuropea trattate in modo diseguale nel mercato del lavoro, e dal punto di vista dell’esigibilità dei diritti sociali. Vi sono differenze insite nei sistemi normativi, per cui i migranti interni all’Unione Europea godono di un trattamento giuridico diverso da quello dei migranti provenienti da paesi extra-europei. E ci sono differenze importanti fra Paese e Paese. E questa è una cosa che non favorisce i processi di coesione sociale e di integrazione e che indebolisce e frammenta le intere società nazionali.
Le dinamiche dell’integrazione nel Paese d’emigrazione, l’inserimento lavorativo, le questioni identitarie, la discriminazione, le politiche d’accoglienza riguardano tanto gli italiani all’estero (di ieri e di oggi) quanto gli immigrati in Italia e hanno effetti sui Paesi di destinazione e di emigrazione.
Come associazionismo sappiamo che occorre agire su più fronti.
La mobilità sappiamo è ricercata (vedasi il flusso migratorio di siriani qualificati in Germania) perché permette di bilanciare gli squilibri del mercato del lavoro nazionali, colmando le carenze di manodopera o al contrario alleggerendo la domanda di lavoro in tempi di crisi. Abbiamo anche già visto, da un altro punto di vista complementare a quello del mercato del lavoro, alcuni tentativi di porre limitazioni a questo diritto fatti negli anni scorsi dai governi di Austria, Germania, Olanda e Gran Bretagna che, con una lettera alla Commissione Europea, hanno denunciato come le migrazioni intra-comunitarie mettessero sotto pressione i loro sistemi di welfare nazionali.
Sistematizzare le (poche) conoscenze che abbiamo a disposizione sull’emigrazione italiana odierna appare necessario come è necessario che il governo si doti di una linea di azione per svolgere quanto gli compete con responsabilità ed efficacia.
Come si vuole intervenire sulle cause dell’attuale emigrazione che risiedono nella crisi economica e nella disoccupazione?
A fronte del fenomeno delle migrazioni internazionali, alla luce delle differenze insite nei modelli normativi che regolano i flussi migratori in maniera diversa a seconda che si tratti di cittadini europei o di migranti internazionali, quale proposta concreta efficace arriva dal governo per individuare questioni e risolvere problematiche rilevanti che sono chiaramente interconnesse (vedi la chiusura dei porti), mentre intere aree si spopolano e continua l’abbandono ininterrotto verso l’emigrazione?.
Di certo l’associazionismo non può stare alla finestra o a parlare d’altro.
L’emigrazione italiana delle precedenti ondate si è integrata, in un certo qual modo deitalianizzata, le sue forme associative sono disconnesse, non fanno sistema e restano largamente quelle del passato. L’integrazione delle diverse ondate migratorie nel tempo ha reso più sicuri i singoli e le famiglie che si sentono “rispettati” laddove prima erano discriminati. Il nostro associazionismo all’estero ha finito per ritagliarsi un profilo di associazionismo della memoria dei luoghi di provenienza, in ciò aiutato da una fuorviante lettura localistica degli enti locali, Regioni in primo luogo. Le stesse associazioni “nazionali”, in Italia prima si organizzavano lungo l’asse del Centro Italia – periferia (fonte di emigrazione) con il fine di mantenere un rapporto tra gli emigranti e l’Italia.
Un’idea e un ruolo ben svolti con la prima conferenza dell’emigrazione del FAIM, ma che poi via via va in crisi, insidiato dall’altro ruolo concorrenziale delle regioni, relativamente sostenuto economicamente. A sua volta entra in crisi perché anche l’esercizio delle memorie locali non è lo strumento in grado di dare risposte a quella emigrazione che dal 2007 ha ripreso con molta forza. Il tutto in assenza di politiche migratorie dello Stato, anche nel caso dell’associazionismo nato dalle istituzioni regionali centro-periferia, la prima conferenza può dunque rappresentare una chiave di lettura pertinente.
La nascita del FAIM non è stata in grado di far crescere come avremmo voluto e come sarebbe stato auspicabile, un associazionismo “orizzontale” che si interessasse nei Paesi di accoglienza ed in Italia dei diversi mondi migranti. Le risposte alla nuova emigrazione non le possono più dare neanche i patronati che pure hanno avuto un ruolo primario nella tutela della vecchia emigrazione operaia del dopoguerra. Questo quadro difficile e dagli esiti complicati si confronta con il ruolo che lo Stato deve svolgere a tutela del lavoro italiano all’estero e che è il ruolo delle istituzioni così come affermato dalla Costituzione. C’è anche il ruolo delle associazioni, che non può che essere sussidiario, innovativo, forte, orientato all’auto-organizzazione, ispirato alla cultura europea mutualistica ed ai servizi di utilità sociale, alle tutele del lavoro e del welfare dei migranti nei paesi europei.
Dal passato si può apprendere come fare per il futuro per affiancare i percorsi di emigrazione. Decisioni e scelte politiche istituzionali non se ne vedono da decenni. Il Ministero del lavoro e della Previdenza Sociale e il Ministero degli Esteri hanno la responsabilità dell’esercizio di un ruolo di monitoraggio e di sostegno per i lavoratori espatriati. C’è un ruolo che può essere svolto da reti informali che vanno promosse, riconosciute e sostenute nei Paesi europei di emigrazione.
Il problema che è di fronte a noi è che gli immigrati vivono all’estero fra insicurezze, precarietà e diritti ridotti.
Come gli stessi possono sentirsi cittadini europei se da immigrati si trovano ad essere trattati in modo discriminato?
Lo Stato italiano non può pensare che i percorsi migratori siano fondati sulla libera scelta individuale e che quindi per ogni migrante posta bastare la messa in atto del noto principio fai-da-te. Molte attese sono state deluse, ne va preso atto, e se ne dovrebbero trarre tutte le conseguenze.
Dopo che il parlamento con la legge n. 459/2001 ha disposto il voto alle elezioni politiche italiane per i cittadini residenti all’estero, non sono cresciute le tutele. Avendo rappresentato il voto una intercettazione di consensi elettorali, che sono stati più funzionali alle dinamiche interne italiane piuttosto che a produzioni normative di effettivo impatto e strutturale cambiamento positivo nelle vite degli italiani all’estero, si è sempre immaginato le comunità italiane all’estero come il topos primario della solidarietà fra connazionali, la sede delle risposte informali sostitutive per i bisogni di chi arrivava.
Ma oggi?
La dimensione frammentata della presenza italiana, i legami tenui e rituali fra i nostri emigrati relativizza il rilievo del termine comunità italiana se accostato alle decine di migliaia di percorsi di vita individuali di chi emigra e se non affiancato dallo Stato né alla partenza né negli arrivi.
A questo punto come promuovere e costruire in Europa relazioni tra gli emigranti e i territori dove gli stessi si sono trasferiti?
Se l’eguaglianza nei diritti la si conquista in modo proattivo, non adattandosi, ma ponendosi l’obiettivo di cambiare insieme la società nella quale si sta cercando una migliore condizione di vita. Cosa dobbiamo fare per unire tutti cittadini che vivono le diverse regioni europee?
Il che vale anche per quella “Europe of talents” (del Rapporto Idos 2019) che ben ricorda che l’emigrazione dall’Africa verso l’Europa è fatta di giovani con grandi potenzialità la cui migrazione (se stiamo ai fatti) non è in un quadro di mobilità circolare.
In quel caso ma anche in quello dei giovani “talenti italiani” oggi si è in presenza di migrazioni che tendono sempre più a divenire stabili. Il Rapporto Svimez, citato da Rodolfo Ricci in un suo recente saggio, spiega le ragioni ostative passate e presenti per ritorni che possono avvenire solo se c’è occupazione o possibilità per forme di auto-imprenditorialità, tanto enfatizzata dai teorici della mobilità felice.
Il tema dei diritti e delle tutele in emigrazione è fra gli obiettivi fondativi del FAIM.
Il che comporta risorse umane e materiali, tempo da mettere a disposizione, tempo da dedicare al lavoro associativo, tutto basato sul volontariato e che non è sostenuto dalle istituzioni. Dovremmo fare di tutto per far avanzare in tutte le associazioni una riflessione sui modelli culturali che si seguita a veicolare come se vivessimo in un mondo immutato.
Nei fatti l’esistenza di associazioni auto-referenziate quanto ininfluenti, centrate sulla conservazione delle tradizioni di origine, sull’alimentazione delle diverse forme di nostalgia, segnalano una lettura atemporale della realtà dei luoghi di origine, un’immagine stereotipata, ferma nel tempo dei territori d’origine che vediamo spesso desertificati dal saldo negativo demografico, dall’abbandono, dalla mancanza di occasioni di lavoro, e dallo spopolamento.
Esiste un’Italia che è sotto gli occhi di tutti ma che non ha la stessa visibilità di quella lontana, gratificante del tempo andato che si celebra nel corso degli anni. Cambiare in parte noi stessi per provare in parte a cambiare le cose. Non so se ce la faremo, ma una diversa condivisa consapevolezza è necessaria perché l’ora dei cambiamenti non è domani, è oggi.