Dal governo sentiamo dire che c’è un’invasione di migranti. Siamo invasi da migranti che arrivano dal mare?
Diamo alcuni dati del Dossier Immigrazione: 5.333.000 il numero effettivo di cittadini stranieri regolarmente presenti in Italia. Oltre 1 milione sono rumeni, cittadini europei, poi in numero decrescente albanesi, marocchini, cinesi, ucraini.
Nel 2017 621 mila quelli della rotta mediterranea, 26 mila nel 2018. Sentiamo spesso affermare: “gli immigrati rubano il lavoro!”
A chi lo rubano e quale tipo di lavoro “rubano”?
Non c’è quello qualificato e di quello precario ce n’è poco. Per questo, da anni, i giovani se possono, se ne vanno dall’Italia. Vanno all’estero (e i dati dicono che ogni anno mediamente, da almeno dieci anni, circa 160 mila sono quelli che escono dall’Italia).
Gli stranieri che entrano alimentano la sottoccupazione, fanno i lavori degli sfruttati, in nero e senza tutele.
Ma allora: chi ruba a chi il lavoro?
Sarebbe facile rispondere polemicamente.
Riprendiamo qualche dato del Dossier Immigrazione:
In particolare è straniero il 71% dei collaboratori domestici e familiari (comparto che impiega il 43,2% delle lavoratrici straniere), quasi la metà dei venditori ambulanti, più di un terzo dei facchini, il 18,5% dei lavoratori negli alberghi e ristoranti (per lo più addetti alla pulizie e camerieri), un sesto dei manovali edili e degli agricoltori.
Quasi nessuno osserva che dall’’Africa arrivano per andare in Europa tanti cosiddetti “cervelli in fuga”.
Non ci si sofferma abbastanza sul fatto che gli africani che arrivano dalla zona subsahariana e che si dirigono in Europa sono davvero, moltissimi, in fuga dal mancato sviluppo dei loro paesi, in cerca di una valorizzazione delle loro competenze. Vorrebbero andare in altri paesi e si devono fermare in Italia dove si muore da braccianti nella combustione di baracche malsane come in Calabria, oppure uccisi a fucilate dalla camorra a Villa Literno o dalla ’ndrangheta a San Ferdinando.
L’Africa, lo ricordava proprio il prof Gaffuri dell’Università di Ancona in una recente presentazione di Europe of talents di Idos ha speso 4 miliardi di dollari per pagare esperti e aziende straniere che intervengono sulle economie e che condizionano governi ma lascia andare via i propri giovani.
Negli ultimi 5 anni il 40% dei giovani africani più brillanti è vissuto o lavora fuori dal continente africano; quelli che partono sono superiori a quelli che restano; in Etiopia, Niger e Ghana il 50% dei giovani emigra per studio. Nel frattempo l’Etiopia fa venire forza lavoro da fuori del paese.
Dall’Africa, e non è paradossale, partono talenti, partono da un paese che si impoverisce, che ha in Nigeria un medico ogni 8 mila persone un operatore sanitario ogni 40 mila persone e che nella area subsahariana ha un numero di medici specialisti più basso del mondo.
Se guardiamo all’Africa da un diverso punto di vista, quello africano. Osserveremo la tragicità di questa condizione. La fuga dei giovani africani non è la causa ma il sintomo del mancato sviluppo. Le tragedie ambientali sono naturali non meno che causate dagli uomini.
Si sente dire: gli immigrati che ci vengono a fare in Italia?
Basta informarsi: gli immigrati sono qui a fare lavori poco qualificati, lavori manuali e lavoro di cura (il 43,2% delle lavoratrici straniere fa la colf o l’assistente familiare).
Si sono create fortune politiche sulla paura di chi viene e non si fa nulla per quanti in numero pressoché equivalente, italiani, sono andati e stanno continuamente andando fuori Italia per lavorare.
Circa 6.000.000 sono gli italiani emigrati. Sappiamo il numero di quelli iscritti all’AIRE ma non sappiamo il numero di quanti, altri, emigrati non vi si sono iscritti.
In questi ultimi anni nella lettura del fenomeno si è enfatizzato il fenomeno dei “cervelli in fuga” con una valutazione tutto sommato prima positiva ma che via via è venuta cambiando. L’indagine più attenta del costante esodo ripetuto negli anni di giovani usciti e non tornati ha confermato, invece, l’esistenza di una emigrazione “proletaria” che à la prevalente. Nella società italiana c’è consapevolezza del fatto che nella maggior parte dei casi non si tratta di “mobilità circolare” di giovani che finito un ciclo di crescita professionale è pronta a tornare per aprire una impresa con gli incentivi previsti dalle Regioni ma di giovani che sanno bene che le condizioni di crisi strutturale occupazionale alla base delle loro partenze sono ancora irrisolte, anzi peggiorate dalla recessione conclamata.
Si emigra per lavorare, per sfuggire ad una precarietà strutturale indotta e ci si ritrova all’estero, salvo eccezioni, in una nuova precarizzazione e dequalificazione che si accompagna ad una riduzione dei diritti sociali che i singoli paesi europei di accoglienza non garantiscono pienamente a quei giovani immigrati che in ogni caso sono o dovrebbero essere paritariamente cittadini europei.
Basta leggere la recentissima denuncia del consigliere comunale di Francoforte Luigi Brillante sulla restrizione dei diritti degli immigrati, degli italiani in specie, in quella grande città tedesca.
Le società europee sono da tempo meno accoglienti, le legislazioni, fra loro similari, restrittive e discriminanti, distinguono i cittadini dagli “altri”. Il consenso ampio al cosiddetto sovranismo ha cambiato anche il senso di solidarietà nelle persone. La si manifesta ancora, non solo in Italia, ma per quelli più prossimi e la si rifiuta invece agli altri. Lo stesso modello europeo fondato su diritti e welfare si sta riducendo. L’emigrazione intereuropea, la possibilità di muoversi nell’area Schengen, una delle cose concrete positive dello stare insieme in Europa sta subendo colpi per le scelte sovraniste. In alcuni paesi europei ci sono diritti welfaristici che non sono più diritti universalistici, di cittadinanza ma che vengono vincolati all’esistenza del rapporto di lavoro. Chi non lavora ha meno diritti in tema di sanità e in tema di sociale.
Le regole che si applicano agli immigrati in Italia si somigliano con le ricette di pari fattura che stanno prendendo piede in altri paesi europei.
Nel nostro paese sono i governi, ivi compreso quello in carica, che nelle scelte pubbliche effettuate non si sono fatti carico dalle tutele dei giovani che emigrano, mostrando di non avere la stessa consapevolezza che i cittadini hanno della condizione dei giovani italiani che emigrano. Non potremo a lungo stare a guardare.
L’associazionismo richiede che ci sia un ruolo attivo dello Stato nelle forme e nei modi più consoni e ritiene il ruolo delle organizzazioni sociali sussidiario e non sostitutivo di uno Stato che tende a farsi minimo quando si tratta di cittadini italiani all’estero.
Da questo punto di vista le istituzioni deputate non mostrano di aver elaborato il minimo di una progettualità per affrontare questioni attuali irrisolte che pure vanno prese in carico sapendo anche che la loro soluzione presuppone periodi lunghi se si vuole ottenere risultati.
Si enfatizzano le reti sociali di aiuto-aiuto dei giovani.
Autorganizzazione come possibile, non esclusiva soluzione. Lo Stato deve svolgere il suo ruolo per creare occupazione in Italia frenando l’esodo di chi vuole uscire dalla precarietà a vita
Lo Stato tutela il lavoro degli italiani all’estero. Lo afferma la Costituzione. Richiedere l’attuazione della legge fondamentale non è esercizio di retorica ma rivendicazione di diritti.
I giovani italiani all’estero hanno necessità di informazioni. I giovani vanno ben informati quando partono e devono trovare consulenza e accompagnamento strutturati. E’ compito dello Stato non lasciarli soli là dove vanno e dove sappiamo che i diritti degli immigrati in maniera crescente vengono messi in discussione.
Le vecchie catene solidaristiche di famiglia e di paese non si sono più riprodotte nella nuova emigrazione europea. I giovani si trovano soli anche per l’attenuarsi del ruolo di quegli enti intermedi democratici attenti al mondo del lavoro (sindacati, partiti, associazioni nei paesi di accoglienza) prima attivi nella inclusione sociale degli immigrati oggi indicati spesso, in larga parte dell’Europa, come superati o superabili dal conclamato esclusivo rapporto diretto tra popolo e governanti legittimati in questo dal mero risultato elettorale.
Le aggregazioni in rete dei giovani, le esperienze organizzative diverse e interessanti che i giovani si sono date devono incontrare e trovare intese e soluzioni organizzative con le associazioni preesistenti in specie con quelle di promozione sociale molte delle quali sono strutturate ed hanno strumenti che vanno ritarati per le esigenze concrete dei giovani della nuova emigrazione. L’associazionismo in emigrazione ha esperienze fatte, risultati conseguiti in tema di diritti ma non mostra di essere in grado consolidare le energie necessarie per le questioni aperte e che necessitano di tempi medio-lunghi quanto al raggiungimento di risultati non occasionali.
Le tutele servono per i giovani per i quali il dilemma tornare o restare si pone meno spesso a fronte di un paese, l’Italia che non cresce e non crea occupazione qualificata.
Il FAIM dopo l’iniziativa precedente del 2017 di Palazzo Giustiniani sta preparando nei prossimi mesi la seconda iniziativa sulla nuova emigrazione nella quale prospetterà soluzioni e indicherà possibili strumenti concreti. Dopo l’approfondimento sul campo e l’analisi della realtà, l’associazionismo intende prospettare indicazioni concrete da confrontare con le istituzioni in una Europa , quella di oggi, che rende insoddisfatti quanti , convintamente europeisti, la vogliono, federale e dei popoli, cambiata e con al centro diritti e welfare e quanti, cui la stessa parimenti non piace ma che ritengono che il ritorno alla piena sovranità degli stati nazionali possa essere la giusta dimensione per recuperare con forza diritti e welfare. Ma sulle due ipotesi la risposta potrà venire, forse, dalla ormai imminente consultazione elettorale europea.
Rino Giuliani Portavoce FAIM
(Intervento per la presentazione del “Dossier Immigrazione 2018” dell’IDOS Sala UNAR via Aldovrandi Roma 6 aprile 2019)