Emigrazione

Italiani all’estero, una realtà complessa

Di Corrado Bonifazi

 

Gli italiani all’estero rappresentano una realtà importante del nostro paese. Grazie a una normativa particolarmente aperta hanno anche la possibilità di contribuire direttamente alla vita politica nazionale. Un recente rapporto dell’Istat permette di avere un quadro aggiornato delle dimensioni e delle principali caratteristiche di questa componente della popolazione. Corrado Bonifazi ne esamina alcuni aspetti in quest’articolo.

Una realtà in crescita

Secondo i dati dell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire), da qualche anno elaborati dall’Istat, alla fine del 2022 il numero di nostri connazionali che vive in un altro paese è ormai prossimo ai sei milioni. 5,94 milioni per la precisione, con un aumento di quasi 100 mila unità nel corso del 2022, grazie a saldi demografici positivi e a un sostenuto ritmo di acquisizioni di cittadinanza che solo parzialmente sono stati ridotti dall’aggiustamento statistico (Fig. 1). Entrando nel dettaglio, si è avuta nel 2022 una prevalenza delle nascite (25 mila) sui decessi (8 mila), delle partenze (99.500) sui ritorni (74.500) e delle cancellazioni di natura amministrativa e di controllo statistico sulle iscrizioni per le stesse ragioni. A questi fattori di variazione si aggiungono 85.400 acquisizioni di cittadinanza registrate all’Aire.

Il saldo migratorio, frutto della ripresa della nostra emigrazione, ha attirato in questi ultimi anni una discreta attenzione, ma anche le altre voci del bilancio degli italiani all’estero meritano qualche considerazione. Il volume delle nascite appare non troppo distante dai contenuti comportamenti riproduttivi prevalenti da anni nel paese e in linea con le caratteristiche demografiche di una popolazione ormai invecchiata, che presenta infatti una età mediana di 43 anni non lontana quindi dai 46,4 dei residenti in Italia (stranieri compresi). Il tasso di natalità per gli italiani all’estero è del 4,3‰, ma arriva al 5,5 tra quelli che vivono in Europa e si ferma al 2,5 in America Latina, contro un valore nel 2022 del 6,7‰ per i residenti in Italia. Una differenza che, come nota lo stesso rapporto dell’Istat, può essere stata determinata da una diversa propensione e interesse a registrare l’evento ma anche da «comportamenti opportunistici a dichiarare le nascite da parte dei genitori. Può ad esempio accadere che l’iscrizione avvenga solo quando si determini una specifica necessità (ad es. di disporre di un passaporto italiano, anche solo per un viaggio)», mettendo però così a repentaglio la qualità complessiva dell’archivio.

Molto più ampia è la sottostima nella registrazione dei decessi. Il tasso di mortalità tra gli italiani all’estero è infatti appena dell’1,4‰, sale al 2,2 in Europa e scende allo 0,4 in America Latina, contro un valore del 12,1‰ in Italia. Una differenza di 8,6 volte che, secondo l’Istat, può verosimilmente essere attribuita anche al fatto «che parte degli eventi di decesso non vengano comunicati alle autorità italiane, non avendo più gli emigrati o i loro discendenti rapporti in essere con il Paese di origine (di tipo parentale o lavorativo, ad esempio)». Salvo però poter richiedere il nostro passaporto qualora ritenessero conveniente farlo. Tale situazione aggiunge un ulteriore forte elemento di perplessità sulla qualità complessiva dell’archivio, in cui sono sicuramente presenti, e non in misura marginale, persone decedute. L’Aire rischia così di diventare una sorta di registro delle Anime morte, nonostante faccia da base alle liste elettorali per il voto degli italiani all’estero e alla determinazione del quorum referendario. Del resto lo stesso volume dell’aggiustamento statistico (-30 mila unità), di cui per altro l’Istat non specifica l’ammontare delle diverse poste, indica la necessità di operare un controllo complessivo e sistematico dell’archivio soprattutto nelle realtà che appaiono più problematiche.

Una normativa anacronistica sulla cittadinanza 

La concessione della cittadinanza per riconoscimento dello iure sanguinis non è stata toccata dalla legge del 1992 e si basa ancora sui criteri stabiliti nel 1912, da un paese che si trovava nel momento di massimo deflusso migratorio della sua storia. Criteri che avevano lo scopo di mantenere con i nostri emigranti e i loro discendenti un rapporto che lo ius soli in vigore nei principali paesi d’arrivo metteva a forte rischio. Una concessione che non ha limiti di generazioni, non prevede test di lingua o di conoscenza della cultura nazionale e che ormai può riguardare la sesta o la settima generazione di discendenti dei nostri emigranti producendo risultati alquanto paradossali. Anche perché da alcune delle mete della nostra emigrazione di fine ottocento e inizio novecento sono da tempo molti di più quelli che desiderano partire di quanti vorrebbero andarci e, per spostarsi nel mondo, un passaporto dell’Unione Europea può essere estremamente utile. Secondo una stima del Sole 24 Ore, nel 2023 le concessioni per discendenza, registrate o meno all’Aire, dovrebbero essere state almeno 190 mila, una cifra molto più consistente di quanto non appaia dai dati analizzati dall’Istat. In effetti, nel 2022 delle 85 mila iscrizioni all’Aire per concessione di cittadinanza il 49% è stato per riconoscimento iure sanguinis. 

I tre quarti di tutte le acquisizioni ha riguardato l’America Latina, dove si trova circa un terzo degli italiani residenti all’estero. La concentrazione più forte è in Argentina che con 924 mila unità rappresenta ancora il paese con il numero più elevato di italiani, seguita da Germania (822 mila) e Svizzera (637 mila) con il Brasile al quarto posto con 563 mila presenze, mentre valori superiori alle 100 mila unità registrano anche Uruguay e Venezuela. Una situazione su cui riflettere, visto che in Argentina gli ultimi flussi italiani di una certa consistenza risalgono ai primi anni cinquanta del secolo scorso e per il Brasile si deve tornare ancora più indietro nel tempo. Il meccanismo di trasmissione automatica, senza verifiche della persistenza di legami di altro tipo, unito ai problemi economici e sociali di quei paesi hanno contribuito a determinare questa situazione. Si è di fatto creato un diritto senza limiti temporali, esigibile on demand e che con il passare delle generazioni riguarda inevitabilmente una platea sempre più ampia.

Prendendo in considerazione la percentuale di nati in Italia tra gli italiani residenti in alcuni paesi (Fig. 2) è significativo che Argentina e Brasile presentino i valori più bassi con il 10,5 e il 5,6%. Ben lontani dagli altri paesi, a partire dagli Stati Uniti dove si arriva al 50,1%. In questo caso, oltre ad aver accolto negli ultimi decenni flussi di italiani più consistenti di quelli diretti in America Latina, è evidente che gli statunitensi discendenti dei nostri emigranti della prima globalizzazione non hanno bisogno del passaporto del nostro paese per muoversi liberamente nel mondo. Nel caso dei paesi europei considerati nella figura, le differenze sono da attribuire ai diversi momenti di massima intensità dei flussi e alle dimensioni dei trasferimenti recenti. Fa eccezione la Spagna che mostra un altro effetto della normativa italiana, qui infatti si dirigono molti latino americani con cittadinanza italiana come mostrano gli stessi dati spagnoli. Infatti all’inizio del 2023 i cittadini italiani residenti in Spagna erano 302 mila ma i nati in Italia nella stessa condizione erano solamente 155 mila, poco più della metà.

Una situazione altrettanto paradossale emerge prendendo in esame la distribuzione per età degli italiani residenti all’estero considerando il luogo di nascita (Fig. 3). In Argentina e Brasile i nati in Italia sono concentrati dopo i settanta anni e non potrebbe essere altrimenti dato l’andamento temporale dell’emigrazione italiana verso questi due paesi. Diversa la situazione nel Regno Unito e in Svizzera presi ad esempio di quanto avviene in Europa. Nel primo caso la forte intensità delle migrazioni recenti determina una presenza consistente già dalla prima infanzia; mentre nel secondo è evidente una più ridotta presenza nelle generazioni più giovani anche se i valori iniziano a crescere tra i 10 e i 19 anni. Alla luce di questi dati è inevitabile interrogarsi sulle diverse caratteristiche che presentano le comunità italiane all’estero, sempre che in alcuni casi si possa ancora usare questo termine, e soprattutto su come va interpretato, superando i richiami folcloristici, il legame che unisce gruppi dove molti degli italiani lo sono per discendenza da avi morti anche più di un secolo fa.

Conclusione

Tirando le somme, appare evidente che la crescita degli italiani all’estero risulta influenzata dalla sottostima dei flussi naturali e da una normativa molto “liberale” sulla concessione della cittadinanza per discendenza. Per il primo punto, sono chiare le difficoltà di registrare eventi demografici che avvengono in altri paesi, ma visto l’uso dell’Aire anche per la definizione delle liste elettorali uno sforzo per ovviare a questi problemi appare quanto mai opportuno. Specie per evitare il rischio che nell’archivio siano presenti persone decedute, il che alla luce della forte sottostima della mortalità risulta più che probabile. Per il secondo, sarebbe utile una discussione che superando gli stretti interessi di parte si interroghi sull’utilità e i vantaggi di mantenere dopo oltre un secolo nel nostro ordinamento un canale di naturalizzazione che l’Italietta giolittiana adottò per difendere il legame con gli emigranti, messo in discussione dallo ius soli dei paesi

 

((da Neodemos)